LA STREGONERIA NELL’INQUISIZIONE
Nel mondo antico si ricorreva spesso a pratiche magiche, sia per scopi benefici, sia per scopi, potremmo dire, malvagi. Con l’avvento del cristianesimo si assiste ad un processo di trasformazione degli antichi dei pagani in esseri infernali, pertanto ogni opera magica è ritenuta non ortodossa. Le antiche credenze legate a queste divinità e le loro manifestazioni diventarono opera del Maligno (come accadde per l’esercito furioso). All’inizio la chiesa assunse un atteggiamento scettico e tollerante, e il suo modus operandi in merito seguiva le direttive del Canon episcopi, in seguito sostituito per via delle numerose contraddizioni riscontrate al suo interno dai demonologi.
Dal XIV secolo in poi la Chiesa cominciò a preoccuparsi sempre di più di queste ingerenze demoniache nella cultura popolare e di questi individui che adoravano creature demoniache, in grado di operare con poteri malvagi sulla Terra. La preoccupazione per queste pratiche si unì a quella per l’ eresia, finendo per trasformarsi in paura. Tutti quei fenomeni fino ad allora ritenuti illusori e frutto di fantasia, come i voli notturni e i malefici, diventarono realtà, un pericolo tangibile da affrontare con gli adeguati mezzi.
I primi processi per stregoneria risalgono sì al Trecento, ma l’intensificazione delle persecuzioni ebbe luogo dopo la promulgazione della bolla papale Summis desiderantes effectibus di papa Innocenzo VIII nel 1484 a cui seguì la pubblicazione del trattato Malleus Maleficarum. Nei decenni successivi a questi due documenti le convinzioni nell’esistenza di streghe, stregoni, sabba, voli notturni e demoni si radicarono notevolmente nelle menti degli uomini, differenziandosi da zona a zona. La credenza nel sabba era però maggiormente diffusa nelle aree alpine come la Val Camonica, la Valtellina e il Tirolo, mentre nelle regioni centro-meridionali prevaleva il timore dei malefici. In Friuli si credeva nell’esistenza degli stregoni malvagi e degli stregoni buoni, i benandanti, in grado di contrastarli. Il Sud d’Italia presentava analogie con l’Inghilterra, dove il sabba apparve raramente nei racconti e nelle confessioni degli inquisiti. In Francia, Germania e Svizzera la situazione era invece molto simile a quella delle valli alpine italiane. Diversamente dal resto d’Italia, la Sicilia era legata a una cultura nordica e in questo contesto le donas de fuera erano creature leggendarie dalle sembianze di fate.
IL PROCESSO PER STREGONERIA
L’inquisizione come la vediamo nel Malleus Maleficarum è frutto di una lunga e lenta evoluzione che ha le sue radici nel IV secolo d.C. quando ancora la cristianità combatteva per emergere contro le vecchie divinità pagane. Dopo i primi secoli, quando i sovrani cominciarono a riconoscere il potere che la religione cristiana esercitava sui loro popoli, l’abbracciarono consapevolmente legittimando il loro stesso potere attraverso la religione stessa. Se il consenso viene da Dio che da Dio sia, e Carlo Magno capì il funzionamento della cosa meglio di tutti, lasciandosi incoronare dal pontefice stesso. Se l’imperatore si era arrogato il diritto di nominare i vescovi e gli abati oltre ai vassalli, facendo confluire i due poteri nelle sue mani, nelle piccole comunità rurali il potere era conferito o al feudatario o al parroco in base ai casi. Sta di fatto che l’autorità e l’influenza dei vicari di Cristo nei piccoli centri aumentava e con essa il bisogno di autonomia.
Il papa delegava il proprio potere di giudicare i fedeli quando colpevoli di eresia ad una figura, chiamata inquisitore, centrale nell’opera di repressione dei peccati contro la fede. Quelli stessi reati perseguiti dall’inquisitore lo erano anche dai vescovi che avevano l’autorità per farlo. Questi, insieme all’autorità secolare riuscivano a gestire i tribunali della fede, ottimizzandone il funzionamento.
Nel 21 luglio 1542 papa Paolo III decise di rendere Roma il cuore pulsante della repressione dei peccati causati dalla diffusione dell’eresia protestante. Lo fece attraverso la bolla Licet ab initio. Organizzò la Congregazione del Sant’Uffizio, “la cui giurisdizione avrebbe dovuto ricoprire tutta la cristianità con l’esclusione dei territori spagnoli e portoghesi”. Fu nominata una commissione dal papa di ben sei cardinali inquisitori a cui furono attribuiti ampi poteri. Questi poteri erano delegati dai cardinali ai frati domenicani o francescani, teologi ed esperto di Diritto Canonico. Dovevano avere più di trent’anni e venivano scelti dai superiori dei loro Ordini, o almeno all’inizio. Col tempo la nomina degli inquisitori passò alla Congregazione. Gli inquisitori iniziavano recandosi nella sede assegnata, pubblicando un editto di fede. All’inizio gli inquisitori dipendevano dal convento che li ospitava e questo non mancò di generare conflitti. Nella seconda metà del XVI sec., con Pio V e Gregorio XIII, gli inquisitori iniziarono a non dipendere dai conventi, avendo ora delle entrate proprie grazie alle pensioni perpetue concesse dal papa.
Il tribunale era composto da due giudici, l’inquisitore e l’ordinario. Decidevano insieme i processi da attuare, in cosa trasformarli, come condurre la causa e stabilivano insieme la sentenza.
Gli inquisitori non possedevano un manuale ufficiale oppure obblighi stabiliti. Seguivano la prassi e le direttive della Congregazione. Non c’erano regole precise da rispettare, ogni giudice faceva l’interrogatorio all’imputato a modo suo, seguendo il suo personale modello. Pare inoltre che gli inquisitori, sempre stando al Dizionario ed allo studio di A. Del Col, dovessero inviare ogni anno una relazione “sullo stato economico del loro ufficio”, soprattutto per evitare la corruzione. Ci furono giudici della fede che fecero carriera, assurgendo al ruolo di papa.
Alla fine del XVIII sec. furono abolite le tre Inquisizioni moderne (Romana-Spagnola-Portoghese) portando alla scomparsa degli inquisitori, tranne che nello Stato Pontificio, dove rimasero fino al 1880. La Congregazione del Sant’Uffizio venne trasformata nella Congregazione per la Dottrina della Fede il 7 dicembre 1965 da Paolo VI alla fine del Concilio Vaticano II (con il motu proprio Integrae servandae).
Nella fase alta della sua attività (XVII sec.) l’Inquisizione romana era, niente di meno, che il cervello della Chiesa Cattolica, che aveva il preciso compito di risolvere le questioni teologiche. I compiti del Sant’Uffizio riguardavano l’eresia, ma i suoi confini erano vasti e le forme di eresia erano numerose. Come sottolineato nel Dizionario, l’eresia non era altro che il ripresentarsi di errori antichi. San Girolamo ritorna frequentemente nei manuali inquisitoriali con la frase <Haereses suam ab originem revocasse refutasse est>. L’eresia non aveva però una forma stabile, mutava, sicché la Congregazione teneva aggiornamenti di volta in volta.
La giurisdizione inquisitoriale aveva dei limiti, anche se a volte risultavano vaghi. Ad esempio, solo i cristiani battezzati erano perseguibili dall’Inquisizione. Caso particolare fu quello degli ebrei (sefarditi), che furono costretti a scegliere tra emigrazione, se volevano restare ebrei, o conversione, quindi battesimo, se volevano restare in Spagna. Inoltre nel Seicento si presentarono nuovi problemi legati alle scoperte scientifiche (pensiamo a Galileo o a Giordano Bruno). Trovare le risposte e le soluzioni a questioni così delicate non era affatto semplice. Il tribunale dell’inquisizione si basava sulle regole del diritto romano: c’era un accusato e un testimone o solamente un delatore o un sospetto generale, dei testimoni e, parte importante, la confessione dell’accusato era da ottenere assolutamente, ricorrendo alla tortura se necessario.
Come ho detto precedentemente non vi era un manuale ufficiale da seguire, sicché nel corso degli anni ne uscirono diversi (il Canon Episcopi, il Malleus maleficarum, ecc.) Prendiamo ad esempio un passo del trattato di Fra Nicolau Eymerich, Manuale dell’Inquisitore e leggiamo quali sono le sette regole per “appendere” un sospettato:
L’inquisitore e il vescovo possono sottoporre qualcuno alla tortura? In caso affermativo, a quali condizioni? Essi possono ricorrere alla tortura, conforme alle decretali di Clemente V (Concilio di Vienne), a condizione di deciderlo insieme. Non ci sono regole precise per determinare in quali casi si possa procedere alla tortura (Sospensione del condannato con funi e caduta con strappi di corda). In mancanza di giurisprudenza precisa, ecco sette regole di riferimento.
- Si tortura l’accusato che vacilla nelle risposte, affermando ora una cosa, ora il contrario, ma sempre negando i capi d’accusa più importanti. Si presume in questo caso che l’accusato nasconda la verità e che, pungolato dagli interrogatori, si contraddica. Se negasse una volta, poi confessasse e si pentisse, non sarebbe considerato un “vacillante” ma come “eretico penitente” e verrebbe condannato.
- Sarà torturato il diffamato che abbia contro anche un solo testimone. Infatti la pubblica nomea più un testimone costituiscono insieme una mezza prova, cosa che non stupirà nessuno dal momento che una sola testimonianza vale già come un indizio. Si dirà testis unus, testis nullus? Ciò vale per la condanna, non per la presunzione. Una sola testimonianza a carico dunque basta. Tuttavia, ne convengo, la testimonianza di uno solo non avrebbe la stessa forza di un giudizio civile.
- Il diffamato contro il quale si è riusciti ad accumulare uno o più indizi gravi deve essere torturato. La diffamazione più gli indizi bastano. Per i preti, basta la diffamazione (tuttavia si torturano solo i preti infami). In questo caso le condizioni sono sufficientemente numerose.
- Sarà torturato colui contro il quale deporrà uno solo in materia di eresia e contro il quale si avranno inoltre indizi veementi o violenti.
- Colui contro il quale peseranno più indizi veementi o violenti verrà torturato, anche se non si dispone di alcun testimone a carico.
- A maggior ragione si torturerà colui il quale, simile al precedente, avrà in più contro di sé la deposizione di un testimone.
- Colui contro il quale si ha solo diffamazione o un solo testimone o un solo indizio non verrà torturato: una di queste condizioni, da sola, non basta a giustificare la tortura.