CUCINA POPOLARE

CUCINA POPOLARE

 

LA CUCINA DEL POPOLO 

La cucina povera non è oggetto delle descrizioni dei ricettari barocchi, perché scritti dai cuochi dei nobili signori, e destinati a costoro, cioè i loro abbienti padroni, presenti e futuri. Per ottenere una pietanza povera, laddove compare una vivanda di cipolle o semplici cavoli, occorrerà fare un’operazione di pulizia dalle spezie e dalla frutta secca, in altre parole occorre evitare gli ingredienti ricchi della ricetta. Così si faccia, per proporre al palato il sapore della cucina contadina, volendo cucinare le ricette proposte nella sezione cucina dei poveri riprese da Bartolomeo Stefani, cuoco dei nobili signori, nella sua opera L’arte di ben cucinare e instruire i men periti in questa lodevole professione (1662).

Nella sezione del ricettario dello Stefani dedicata al “vitto ordinario”, sono sempre vari tagli di carne a fare la parte dei protagonisti delle ricette, confermando la destinazione delle sue indicazioni quantomeno a ricchi borghesi, o a nobili meno facoltosi. Infatti cita la servitù domestica: lo spenditore di casa, la cuciniera o il cuoco. Poco interessava a Bartolomeo Stefani di scrivere, per esempio, la ricetta nuda e cruda dei fagioli con l’occhio, che con tanta enfasi si caccia in bocca un tipaccio come il Mangiafagioli dipinto da Annibale Carracci (a fine Cinquecento), che affianca alla pietanza del cipollotto da mangiare a morsi, una torta povera di verdure e due pagnotte.

 

 

GIACOMO CASTELVETRO L’AVVENTURIERO

Più incline a scrivere di cibo povero è Giacomo Castelvetro, autore del Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe et di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano, Londra, 1614. Modenese all’estero, reietto perché di idee luterane, colpito da nostalgia della varietà di frutta e verdura della Penisola, appassionato di orticoltura. Una figura avventurosa, sempre nell’occhio dell’Inquisizione, che a fine di un vita errabonda e pericolosa per le corti d’Europa, scrive di verdure bollite o fatte arrostire in modi semplici, probabilmente condivisi da mense più povere. Proprio lui ci racconta dei fagioli nostrani come cibo da contadini, di magro, da dare loro al tempo del raccolto con formaggio duro.  Cotti e passati al setaccio, forniscono una base (da speziare, nella versione del Castelvetro) per fare torte al forno e il ripieno di tortelli dolci da friggere, e mangiare col miele. Parla poi dei ceci come di un cibo da poveri, ma mai quanto le cicerchie:

cibo grossolano, ventosissimo, e generante sangue grosso», e delle castagne lesse come cibo da bassa plebe.

In pochi casi inserisce ricette più complesse, come lolla podrida, ossia – secondo Castelvetro, che la pone fra le ricette primaverili – un’insalata di erbe crude e cotte, manzo salato, germogli di cicoria, capperi salati e capperi genovesi, olive, pezzetti di cedro e limone e vari altri ingredienti. Castelvetro dice che è un “nome barbaro”: l’olla podrida in spagnolo è un minestrone di verze e carne (ancora oggi un piatto tipico di Burgos, Castiglia), che potrebbe essere alla base della casseoula milanese, per tramite della dominazione spagnola. Il termine significa letteralmente “pentola imputridita”. L’origine della cassoeula è avvolta dalle leggende, ma almeno una di queste cita origini spagnole. Si tratta di zuppa da lunga cottura nel pentolone, sempre presente al focolare di casa, che conteneva le foglie più dure dei prodotti dell’orto e se andava bene qualche pezzo di carne di maiale salata, in varia forma.

Ai lasciti della dominazione spagnola vanno assegnate le polpette milanesi di macinato, il cui nome “mondeghili” deriverebbe da mondeguillas. Nel ricettario di Bartolomeo Stefani, alla già citata sezione del vitto ordinario, proprio le polpette fritte nello strutto sono indicate come cibo della quotidianità, fatte con carne trita, lardo, formaggio grattato, uova, aglio, pane, prezzemolo, e «per farli fare un poco più crescimonia» della ricotta e dell’uva passa.

 

 

IN LETTERATURA, NEL TEATRO E PER LA STRADA

Fagioli, rape, cavoli e cipolle sono il cibo prediletto di Bertoldo, lo scaltro contadino uscito dalla penna di Giulio Cesare Croce, e dato alle stampe per la prima volta nel 1620 (col titolo di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno). Il contadino Bertoldo, avvelenato dal cibo dei ricchi e dalle mollezze della corte ai quali non era avvezzo, muore invocando quel cibo povero e la durezza della vita contadina. L’epitaffio della sua tomba, alla fine del racconto, recita:

Fu grato al re, morì con aspri duoli,

per non poter mangiar rape e fagiuoli. 

Intanto la Commedia dell’Arte, nata nel Cinquecento, sviluppa il personaggio dello Zanni, cioè del contadino, che ha perennemente fame, una fame animalesca, rivolta sia al cibo e sia alla sfera sessuale, di solito orientata alle servette. Nel Seicento questa figura evolve e anima vari personaggi della Commedia, teatro di strada rivolto al popolo, nato per sbeffeggiare la nobiltà vanagloriosa. Zanni nasce proprio come contraltare del personaggio de Il Magnifico, un nobile, che poi si chiamerà Pantalone. Fra il popolo, nel secolo della cucina barocca e opulenta, di fame si muore e della fame si ride, forse per non morire.

Sempre nella strada, la trippa è presente fin dal Medioevo, così un’incisione di Annibale Carracci rappresenta il Tripparolo che porta sulle spalle un bastone ricurvo con ganci alle estremità da cui pendono, uno per fianco, due pentoloni di trippa con coperchio e mestolo che fuoriesce.

(Annibale Carracci, [Arti, mestieri e figure tipiche], Roma, 1646,)
Link all’immagine: http://www.istitutodatini.it/biblio/images/it/casanat/20b2-129/dida/4.htm

 

Trippa, cotiche e parti povere insieme a verze, cavoli e verdure in foglia sono cibi contadini di lunga durata nel tempo. Una novità dell’epoca è l’aumento del consumo di pasta secca, se non altro in ambito urbano. Nascono a fine Cinquecento le corporazioni liguri di pastai: i Fidelari genovesi, produttori di paste sottili dette fidei, insieme ai formaggiai, fondano la propria nel 1574. A Savona nacque una corporazione omonima tre anni più tardi. Famosa e di poco precedente è la napoletana Arte delli Vermicellari, 1571.

 

 

CIPOLLE E VERDURE “TRUCCATE” PER PALATI NOBILI

Il Seicento è proprio il secolo durante il quale si afferma a Napoli la pasta come cibo di strada dei poveri, rendendoli “mangiamaccheroni” dopo essere stati chiamati a lungo “mangiafoglie“, ossia mangiatori di verdure in foglia.

Spiega Giacomo Castelvetro che in Italia si mangia più verdura che carne per due motivi: il clima caldo e la minor quantità di capi di bestiame, specialmente bovini. Nel suo libro elogia erbe comuni in insalata, cavoli ripieni, minestre di rape e frutti dolci con l’appetito di chi ci deve rinunciare perché reietto in quel momento Gran Bretagna, al freddo, a masticare carni che forse non ama.

In alcuni casi, piatti della cucina povera fanno la loro comparsa nei ricettari, in una veste nobilitata da spezie, sapori dolci, pistacchi, zucchero che non appartenevano certo al mondo rustico, ma solamente nella versione arricchita da questi ingredienti trovano posto nel menù strabiliante proposto dai ricettari barocchi. Ad esempio Bartolomeo Stefani scrive una ricetta di cipolle appassite nel burro. Una ricetta via via arricchita da spezie come cannella, chiodi di garofano, e poi pistacchi, noci, zucchero, panna e acqua di rose. Molto lontana dalla zuppa di cipolle delle tavole povere, la cui derivazione diretta è, ad esempio, la carabaccia della cucina toscana. Alla stessa stregua sono trattati i cavolfiori, i finocchi, i cavoli cappucci presenti nella sezione “vivande”, cioè “verdure”. Ingredienti contadini nobilitati per il ceto elevato con cannella, panna, uova, pinoli, uva passa, ecc. Un altro esempio è la “Insalata Cappuccina“, fatta con cavoli cappucci cotti alla brace e poi conditi con acciughe o angioue dove il tocco nobiliare sulla ricetta povera è dato da cedro fresco, pistacchi e una spolverata di zucchero.

 

 

POLENTA, LATTE E FARINE

Particolare durezza di condizioni doveva colpire le classi inferiori contadine sul finire dell’inverno, quando le scorte di farina e conserve iniziavano a scarseggiare. Allora i cibi secchi e i cavoli diventavano indispensabili, come le farine più povere, tra cui, appunto la farina di ceci, di castagne che dà origine a polente o sfarinati al forno.

Qualche notizia delle polente di farina, o farinate dei contadini si ricava dall’opera di Vincenzo Tanara, L’economia del cittadino in villa (1644), il quale scrisse della conduzione delle tenute agricole, citando spesso le famiglie di rustici in quanto dipendenti del nobili proprietari agricoli, veri destinatari del suo libro. Ad esempio, trattando della gestione dei bovini, avverte che dare una o due vacche ai contadini dipendenti, era un «modo di provederli, sensa spesa, di companatico».

Molta cucina povera comprendeva infatti il latte come ingrediente. Di sfuggita, il Tanara racconta che nel latte i contadini facevano bollire le granaglie come frumento, miglio, riso e farro, per fare polenta per poveri rustici non schifata, che con l’aggiunta di formaggio ben misticato poteva essere gradita ancor da’Signori.

I poveri contadini non avevano mai accesso al pane di fior di farina, il loro pane era scuro e duro, conservato essiccato, consumato fino all’ultima briciola. Si panificava anche con farine di legumi miste a cereali, con il miglio, la segale, il farro, il sorgo Il confine fra farina da pane e sfarinato di legume è labile e fluido. In nord Italia la coltivazione del mais conduce all’impiego della sua farina come ingrediente unico per la polenta, sempre più alla base della piramide alimentare, cosa che nel Settecento provocò l’insorgere della pellagra.

Delle polente di farina e simili preparazioni si conserva proprio a La Spezia la farinata di ceci, come patrimonio culinario locale; i testaroli sono anch’essi una forma di cottura nel testo di una farinata. Le tracce archeologiche degli strati di vissuto medievale, del resto, restituiscono i testi per la cottura a fuoco di polente e farinate fin dall’Alto Medioevo, in una continuità pressoché mai interrotta fino ai testaroli attuali.

Nelle valli liguri le erbe spontanee, sostentamento mai trascurato dai contadini fino all’epoca preindustriale, nel Novecento avanzato, sono alla base dell’alimentazione, magnificamente rappresentate dal pesto ligure, ricavato a freddo con attrezzi antichi come mortaio e pestello pochi e poveri ingredienti: basilico, aglio, formaggio, olio, pinoli.

 

 

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