LA CUCINA NOBILIARE NEI RICETTARI BAROCCHI
Il XVII secolo ci ha lasciato illustri testi di cucina:
- Ricettario del bolognese Giuseppe Lamma, scritto per la nobiltà cittadina.
- Vincenzo Tanara, L’economia del cittadino in villa (prima edizione Venezia, 1644), agronomo bolognese, che spiega fondamentalmente le proprietà dei cibi (dietetica) e la gestione di una tenuta agricola alla nobiltà del suo tempo.
- Antonio Latini, Lo scalco alla moderna, 1694; Giovanni del Turco, Trattati di cucina toscana, 1602-1636.
[…] questo Libretto non esce da un’Academia, ma bensì da una Cucina. Non propongo regole di ben dire, ma di ben condire.
Bartolomeo Stefani, 1662
La cucina barocca italiana, nella sua versione più elevata, offre una spettacolarizzazione del divario sociale fra l’opulenza della nobiltà e la povertà delle classi inferiori. Mentre il reperimento del cibo diventava un serio problema per i ceti bassi, l’esibizione della ricchezza della tavola esprimeva il potere della nobiltà, proprietaria delle risorse. La cucina ricca del tempo mette in tavola anche altri contrasti: quelli dei sapori. L’agro, il dolce, il salato, le marinature, le mostarde, i dolci come ingredienti insieme alle carni, aprono al palato combinazioni inattese, sorprendenti, con eccessi di condimenti.
L’arte del banchetto risente dell’esibizione del lusso presente nella civiltà del tempo, ad esempio negli enormi e opulenti vestiti con acconciature mai così vistose (parrucche lunghe, tacchi, nastri e maniche gonfie per gli uomini, specialmente verso fine secolo, abiti enormi con gabbia di sostegno delle sottane femminili), nei grandi palazzi dai decori imponenti, ecc. Il cibo elaborato è è più che mai una velleità, uno status politico e sociale che descrive insieme agli altri averi del nobile la sua importanza e il suo rango.
Fra i trattati giunti fino a noi, spicca L’arte di ben cucinare e instruire i men periti in questa lodevole professione di Bartolomeo Stefani (Mantova, 1662), cuoco in servizio presso i Gonzaga di Mantova, opera dal sottotitolo che recita:
Dove anco s’insegna a far Pasticci, Sapori, Salse, Gelatine,Torte e altro.
L’OPERA DELLO STEFANI
Nell’opera dello Stefani è incluso un trattato specifico sui banchetti. Per citare un esempio, una possibile imbandigione, proposta nel “banchetto di magro invernale per dodici cavalieri”, comprendeva un piatto principale detto “sforzato”, mentre altri piatti più piccoli, in tavola per tutti i commensali, contenevano “rinforzo” e “intreccio”, cioè pietanze di contorno. Ogni portata diventava una sinfonia di note salate, agrumate, dolci, speziate, che oggi al nostro palato risulterebbero strane, ridondanti, quasi insopportabili. Vediamo una delle portate: per “sforzato” lo Stefani consiglia una trota del Garda al forno, con aggiunta in cottura di gamberi, pistacchi, ostriche, tartufi, e sopra una salsa di gamberi pestati con malvasia.
La trota sarà servita su un letto di pane fritto, con il piatto ornato di piccole trote fritte e marinate nel limone, alternate a capesante di pastasfoglia ripiene di capesante vere speziate. Se sembra sufficiente, così non era nel Seicento. Ecco infatti che per “rinforzo” arrivavano in tavola quattro piatti di calamari fritti con zucchero, il piatto ornato di “falcette” di pastasfoglia. Ancora, per “intreccio”: quattro scodelline di salsa di prugne di Damasco, con zucchero e cannella.
Poi tutto cambiava alla portata successiva: via piatti e piattini, ecco un’altra combinazione di tre portate abbinate. Un vero caleidoscopio di cibi, piatti, colori, per tacere dei vini e della continua presenza di zucchero. In un altro banchetto vi è solo la formula di sforzato e rinforzo, con il consueto sfoggio di ingredienti dolci e condimenti. Il capocuoco propone varie formule: banchetti per l’inverno o l’estate, di magro o di grasso, per sole dame o soli cavalieri, senza risparmiarsi sulle decorazioni in sculture di zucchero o di pasta, con cotture lunghe ed elaborate, e poi salse piccanti, mostarde di agrumi, ad accompagnare portate di pesce, di cacciagione, di volatili e bovini.
I TRE BANCHETTI PER CRISTINA DI SVEZIA
Ma il capolavoro dello Stefani sono i tre banchetti per Cristina di Svezia, ospite a Mantova sulla via di Roma per ricevere la comunione dal Papa dopo la sua conversione al cattolicesimo, nell’autunno del 1655. Nella descrizione delle apparecchiature e delle pietanze si dispiega lo sfarzo e l’opulenza di una cucina spettacolare, arricchita dall’imbandigione della tavola secondo criteri scenografici. A centro tavola, solo nel primo banchetto a Revere, si erge una scultura di zucchero raffigurante l’Olimpo, sul quale è posto l’altare della fede, e due putti che sorreggono la corona reale sopra lo stemma di Cristina di Svezia. Sulla tavola sfilate di personaggi (guerrieri famosi, uomini illustri) scolpiti in zucchero sfilano davanti ai commensali entro architetture a due ordini di colonne, inoltre vi sono piccoli alberi di aranci, i cui frutti sono di gelatina. Ancora trovano posto figure di animali di piegature.
Una curiosità: l’arte di piegare le stoffe di lino dei tovaglioli secondo forme naturalistiche viene fissata nel Seicento in veri trattati con disegni e istruzioni (ad es. quello di Mattia Giegher, del 1639, stampato a Padova). Il primo banchetto per Cristina di Svezia si apre con biscotti dolci e fragole, conchiglie di zucchero e uccellini di marzapane, cui segue una elaboratissima pietanza di piccioni. Del resto delle pietanze è pressoché impossibile tentare di dare un riassunto.
Va detto, a conclusione di questo breve assaggio del trattato più famoso del Seicento (che influenzò la corte di Francia) che il messaggio dell’ospitalità di corte è anzitutto politico, di esibizione, da parte dell’ospitante, del proprio rilievo nello scacchiere degli Stati signorili e delle monarchie. Non a caso il testo dello Stefani fu edito presso la stamperia Osanna, stamperia di Casa Gonzaga. Così facendo la risonanza di un tale sforzo di ospitalità, oggi diremmo “di immagine”, venne estesa al resto d’Italia e d’Europa. Fanno già ingresso, nella terminologia di Stefani, vocaboli francesi, spia di un’influenza in crescita che andrà a soverchiare la cucina italiana rinascimentale nel corso del Seicento.