GRANO E MALOCCHIO: LE STREGHE DI ROCCHETTA
A Rocchetta di Vara l’accusa di stregoneria contenuta nella fase istruttoria del processo, risalente al 1638-1640, include l’uso del grano per scopi stregoneschi. Il rapporto fra donne e grano è risalente nel tempo, legato alla gestione delle risorse primarie, come le farine, alle polente di vari grani cotte sui testi, alla macinazione e alla panificazione.
Il rapporto tra la Liguria interna e il grano non è mai stato facile. rispetto alla stretta area costiera, inadatta in genere alla coltivazione del grano e più idonea alla vite o all’olivo, alcune valli interne sono state in grado, nel tempo, di sviluppare proprie piccole nicchie di produzione. Così ad esempio proprio l’area di Rocchetta Vara e di Suvero con il loro celebre “grano bianco”, ora presidio Slow Food. Tuttavia la produttività non è stata mai elevata, a causa delle condizioni ambientali e della asperità dei terreni e la popolazione era costretta A integrare la propria dieta ricorrendo a granaglie miste, alla castagna e comprando da fuori quanto necessario. Anche per questo motivo il significato del chicco di grano nella cultura popolare si è radicato.
Nella rocca dei Bentivoglio a Bazzano (Bologna) fu affrescato “Il ciclo del pane“, il pane del welfare idealizzato di una corte rinascimentale: preparato, impastato da mani femminili, da donne giovani, dagli abiti belli e puliti, in un mondo perfetto. Nei Tacuina Sanitatis, trattati di dietetica basso-medievali, è presente la miniatura dedicata all’impasto delle pagnotte e spesso anche alla cottura, per mano di operose donne del popolo. Due secoli dopo, ogni donna raffigurata in cucina o è una vecchia decrepita e losca, o una servetta rosea, oggetto di tentazione della carne, dentro la cornice della cucina come luogo degli appetiti che la morale cristiana controriformista associava nel genere di peccato definito “concupiscenza della carne”, cercando di controllare i comportamenti del popolo.
LE SERVETTE E LE ANZIANE IN PITTURA
La pittura di genere del Seicento ritrae spesso donne intente a preparare cibi in cucine di case, di osterie, di palazzi dell’aristocrazia. I dipinti di genere, dall’Italia all’Olanda, sono di mano maschile. Le figure femminili sono giovani servette dai visi rotondi e rosei, abbigliate con graziosi corpetti, a volte un po’ discinte, a volte oggetto di interesse da parte di uomini entrati in cucina per avvicinarsi a loro. Oppure anziane donne, scarne, fra pentole di coccio.
Ricette al maschile
Tutti i trattati di cucina del Seicento sono opera di uomini:
- il ricettario del bolognese Giuseppe Lamma per la nobiltà cittadina
- Vincenzo Tanara, L’economia del cittadino in villa (prima edizione Venezia, 1644)
- Bartolomeo Stefani, L’arte di ben cucinare e instruire i men periti in questa lodevole professione (1662)
- Antonio Latini, Lo scalco alla moderna, 1694
- Giovanni del Turco, Trattati di cucina toscana, 1602-1636
- Giacomo Castelvetro con il Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe et di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano, Londra, 1614.
Le pubblicazioni al femminile in materia di ricette non esistono, perché alle donne non è concesso essere di più che Cuciniera, mentre gli uomini hanno titolo di Cuoco, e come tale pubblicano volumi di ricette e consigli. Alle donne, al contrario, non è dato pubblicare libri, ad esse non è dato scrivere.
MEGLIO UN UOMO IN CUCINA?
Vincenzo Tanara, un marchese e agronomo di Bologna, fu autore de L’economia del cittadino in villa (prima edizione Venezia, 1644), un trattato di agronomia che contiene consigli sulla conduzione delle tenute agricole, destinato ai nobili del suo tempo. Il testo, contenente anche ricette di cucina, elementi di botanica e di dietetica, è infarcito di riferimenti ad autori antichi e ai Padri della Chiesa, che si alternano sul come condursi rispetto ai contadini e alla servitù domestica. Ragionando, ad esempio, su chi si debba incaricare come cuoco, raccomanda ai nobili signori di affidarsi ad un uomo, non a una donna, dilungandosi in discorsi francamente misogini. Fra le motivazioni per cui non scegliere le donne adduce:
<qualche volta per esser vinolente [avere il vizio del bere], malediche [maldicenti], o streghe>.
A loro è senz’altro preferibile un uomo perché non si sa bene cosa facciano in cucina le femmine: se bevono, se fanno entrare uomini. Pazienza, poi, se è il Cuoco a far entrare una meretrice, perché secondo il Tanara è meno vergognoso (terza edizione, Bologna, Eredi del Dozza, 1651, pp. 175-176).
DONNE, CUCINA E STREGONERIA
In realtà le mansioni di cucina sono spesso ricoperte dalle donne, benché non piacesse al Tanara. Nella sezione finale del ricettario dello Stefani, dedicata all’economia domestica ordinaria, l’autore dà consigli per le pietanze di routine. Spesa e cucina erano occupazioni della servitù. Lo spenditore di casa andava a comprare gli ingredienti e poi li portava, scrive lo Stefani, alla cuciniera o al cuoco in servizio presso la famiglia. Esisteva normalmente, dunque, la “donna cuciniera”, mai la cuoca, un titolo usato solo al maschile. Bartolomeo Stefani si definisce “capocuoco“.
La misoginia del marchese Tanara riflette, in fondo, la temperie culturale di un’epoca repressiva, che gettò una luce decisamente oscura sul sapere delle donne in cucina. Proprio il rapporto privilegiato con la cucina e la trasformazione dei cibi, causò alle donne l’accusa di essere avvelenatrici dei propri mariti, dei mariti altrui, di voler cambiare la sorte delle persone mediante il cibo (amore, sessualità, malattia). L’accusa costante mossa alle streghe fu di usare erbe per avvelenare, di fare unguenti e medicamenti per nuocere alle persone. Su questo rapporto fra donne e trasformazione delle risorse alimentari, soprattutto quelle spontanee, da sempre risorsa gratuita dei contadini e appannaggio tradizionale del mondo femminile, si accanì l’Inquisizione.
Maria Giuseppina Muzzarelli, Nelle mani delle donne. Nutrire, guarire, avvelenare dal Medioevo a oggi, Bari, Laterza, 2014.